Il fisico Max Born (1882-1970) è conosciuto dai molti per i suoi importanti contributi alla meccanica quantistica. Quello più noto, per il quale gli fu assegnato il Nobel, è l’interpretazione probabilistica della funzione d’onda di Schroedinger; ma fondamentali furono anche i contributi e la collaborazione che diede ad Heisenberg, insieme a Jacobi, sulla formulazione matematica della “meccanica delle matrici”.
Eppure, racconta nella sua autobiografia, fu quasi “disgustato” dall’insegnamento della matematica (e in particolare della geometria euclidea) ai tempi del liceo, per poi cambiare opinione nei primi anni dell’università.
A proposito del concetto di infinito e dell’uso che se ne fa in matematica, come in filosofia, Born racconta:
“Le sole lezioni che seguivo con vero piacere erano quelle di matematica e di astronomia.
Che cosa c’era di affascinante in quelle lezioni di matematica, tanto da capovolgere completamente l’indifferenza, quasi il disgusto, con cui a scuola avevo reagito alla matematica? È difficile spiegarlo a chi non ha familiarità con la matematica.
In quel periodo, sotto la guida del dottor Lachmann, avevo cominciato a leggere un po’ di filosofia, e mi ero appassionato ai vecchi problemi metafisici dello spazio e del tempo, della materia e della causalità, delle origini dell’etica e dell’esistenza di Dio. Qualcuno mi aveva regalato un libro di epistemologia di Heymans, che mio cugino Hans ed io leggevamo come se fosse la fonte della saggezza. In ogni caso fu attraverso quel libro che ci abituammo ai paradossi dell’infinito, che appaiono non solo nelle speculazioni sullo spazio e sul tempo, ma anche a un livello più alto, parlando della legge morale e di Dio, i cui attributi includono sempre il prefisso <<onni>>, collegato a parole come <<potente>>, <<sciente>>, ecc.
Ora il concetto di infinito compariva anche nelle lezioni di matematica, ma invece di essere avvolto nella nebbia dei paradossi era un concetto chiaro, o più precisamente, poteva essere formulato in modo perfettamente chiaro, secondo le circostanze. Era quella la scoperta importante: che certe parole non avevano alcun significato finché non erano inserite in un sistema di idee definito, ed applicate ad un problema definito, nell’ambito del quale potevano diventare significative.
Quando ebbi i miei primi approcci con la filosofia, ebbi l’impressione che i filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l’esperienza e le precauzioni dei matematici, erano come navi immerse nella nebbia in un mare pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo. (Naturalmente ci sono le eccezioni – Russell, Whitehead ed altri, ma io lo scoprii solo molto più tardi). “